Ancora Foer. 

Diceva un tale che le parole sono pietre, mentre i silenzi, i silenzi sono mari. A volte, mari amari. Le parole sono anche coltelli affilati, certe volte, o coperte avvolgenti, “le parole sono tutto ciò che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste”, saggio, minimalista Carver.

Coltelli sono le parole le frasi capitoli interi di “Eccomi”, l’ho finito ieri e sono ancora senza fiato, è raro per me aver bisogno di uno o due giorni di decompressione tra un libro e l’altro, spesso non passano che i pochi secondi necessari a chiudere un file e aprire il successivo in coda di lettura sul Kobo, eppure Foer li impone, li pretende. Da qualche parte ho letto che ha voluto “fare Roth”, ed è vero, è un libro straordinariamente inteso di ebraismo, ebraicità, jewishness, pieno di frustrazione e delusione e attese disattese e vite vissute oppure schivate, strade che si dividono nei boschi gialli e nonostante nessuno imbocchi una o l’altra le cose accadono, 

Foer ci costringe a osservarle su più piani contemporaneamente nello sfrenato cubismo sinestetico della letteratura contemporanea, è quasi David Foster Wallace in alcuni punti, così densi di contrastanti immagini nello stesso paragrafo di richiedere, a tratti una seconda lettura, perché quando ti raccontano così bene i fatti tuoi non sempre riesci a tenere imbrigliati i pensieri.

Anche non avere scelta è una scelta, lo dice il vecchio Isaac in yiddish, anche nessuna risposta è una risposta, penso io, in una sorta di riflesso spontaneo, poi abbandono quella sterile linea di pensiero, torno sul libro, faticoso e saziante insieme.

Eccomi mi lascia tante cose, tra tutte la più profonda è che le cose accadono nonostante noi, e la seconda è che devo, voglio scrivere, cercare una storia che non sia la mia eppure parli di me.

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