Uno di loro. 

Per molti anni, dopo la maturità, sono ststa profondamente convinta del fatto che il vantaggio principale derivato dall’assidua frequenza di cinque anni di liceo linguistico consistesse nell’acquisita capacità di riuscire a sostenere conversazioni in più lingue contemporaneamente. L’ho riscontrata per la prima volta in occasione dell’Oktoberfest, quando l’amministrazione della città gemellata con il mio paese d’origine (rispettivamente Neu – Ulm e Trissino) mi ha invitata al tradizionale convivio bavarese insieme a delegati delle altre settecento località gemellate. A quel tavolo si parlava tedesco, svevo, inglese, spagnolo, francese e olandese, ma ricordo abbastanza vagamente che dopo il secondo Maß Bier (queste ragazzotte rubizze con la settima di tette e tra le braccia dodici boccali da litro, le bracciotte avvolgenti, e i dirndl, che donne, quelle) parlavo con scioltezza un po’ tutte le lingue neolatine, e forse, se avessi provato, anche un paio di dialetti pashtun. Sta di fatto che comunque aver vissuto cinque anni in un posto in cui le prime quattro ore del lunedi erano dedicate ciascuna a una lingua diversa, latino incluso, e alla quinta e sesta c’era matematica e fisica, parabole e asintoti, ecco, ti scioglie parecchio le sinapsi. Che poi diciamolo, le lingue non si imparano all’università. All’università i corsi di lingua vera e propria si superano un po’ come l’esame della patente, in cui non conta se hai capito le regole del traffico, ma se hai una comprensione del testo sufficiente a schivare le insidie dialettiche delle domande trabocchetto. All’università, il B1 di inglese prevede un quiz al computer in cui ci sono frasi da completare tipo Mia zia ha un ombrello______. Verde? Giallo? Aperto? Rotto? Rubato? Non c’è una scelta, procedi per ispirazione divina. Il dettato di spagnolo ha fatto più morti della Guerra Civil, e all’orale di Tedesco C1 occorreva saper recitare a memoria il copione di Goodbye Lenin, al contrario. Che comunque se non frequentavi, col piffero. Hanno bocciato una madrelingua che aveva fatto l’Abitur in Germania col massimo dei voti. Ma la follia. Comunque le lingue non te le insegnano, a Lingue. Un po’ di letteratura, forse, ma anche lì, se non hai fatto le cose per bene al liceo, è un macello. Io lo dico sempre, ho vissuto si rendita, perché al liceo, nel triennio soprattutto, sono stata fortunata. Le tre letterature straniere, quella italiana e storia procedevano di pari passo, quindi era piuttosto facile avere in testa una panoramica generale di una certa epoca storica. Peccato che con storia dell’arte non siamo state altrettanto fortunate (ricordo una psicotica metallara che mi odiava, e che non fece assolutamente nulla tutto l’anno). 

Questa forma mentis del liceo linguistico (che poi era scientifico sperimentale Brocca a indirizzo linguistico, finivi di dire il nome ed eri già al triennio) mi è poi rimasta, avendo io scelto di continuare il percorso con una laurea triennale dal nome ancora più lungo, “lingue e culture per il management del turismo”, che aveva qualche esamino di economia, marketing, comunicazione, ma poca roba, per il resto era lingue e letterature con su il vestito figo. E per fortuna, perché veramente, più di un esame è andato per pura inerzia post liceale. 

La passionaccia brutta per le letterature, comunque, mi è rimasta, con lievi tendenze al peggioramento, di anno in anno. È per questo che ho prontamente  ceduto, in pieno spirito wildiano, alla tentazione dell’ultimo di Alessandro Piperno, il Manifesto del Libero Lettore. 

A me, si sarà forse notato, i libri che parlano di libri tendono a piacere a prescindere. Alcuni sono fatti bene, come questo, altri magari deludono, come “Le parole degli altri” di M.Uras, che come mio diritto in quanto libera lettrice, ho abbandonato senza rimorsi né rimpianti. Ma questo nuovo Piperno, io credo, dovrebbe entrare di rigore tra i libri di testo nei licei. E non solo linguistici. E non solo licei. Perché è un’ode alla gioia della lettura, perché Piperno sale sulla scaletta e arriva fino allo scaffale più in alto, ti prende Tolstoj, Flaubert, Austen, Nabokov, Proust, Camus e parecchi altri e te li riporta giù, sulla terra, e ti tiene per mano. Non avere paura, ti dice, i classici non mordono. Ti mostra Anna Karenina, Emma Bovary, Elizabeth Bennet, Julien Sorel, Humbert Humbert nella loro sovrumana umanità, ti smonta e ti rimonta i pezzi senza rubarti la magia del gioco di prestigio, ma anzi, aumentando il tuo stupore per l’abilità che ha l’autore nel farlo sembrare semplice. 

Dopo le definizioni di cosa sia un classico enumerate da Calvino, Piperno ne aggiunge un’altra, che le completa e le racchiude, mescolandole come i baci del poeta latino a una serie di considerazioni rilassate e rilassanti sul romanzo, sulla narrativa e sulla libertà di leggere quel che ci pare. Tutto il resto è letteratura, concludeva quel famoso verso di Verlaine.  

Non si può trasmettere a un figlio o a un allievo l’amore per la lettura, se non per imitazione e ammirazione, ma certe volte ci sono libri che semplicemente fanno un gran lavoro al posto nostro. Questo è uno di loro. 

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